In caso non l’aveste notato (sono ovviamente sarcastico) il mondo della produttività office non è più un esclusivo monopolio di Microsoft. E questo è tanto più vero se ci si sofferma ad analizzare gli strumenti per la comunicazione ed in particolare la messaggistica via e-mail.
Nelle nostre attività di business siamo totalmente condizionati dalla disponibilità ubiqua delle e-mail nonostante il loro trasporto sia basato su una tecnologia di protocollo praticamente “preistorica”. Molti strumenti di instant-messaging cercano in ogni modo di soppiantare la cara vecchia e-mail, ma, anche se concettualmente possono assolvere egregiamente al compito di contatto continuo nei gruppi di lavoro, sono ancora troppo avvolti da un’aura di “gioco” o, peggio, di “fancazzismo” che male si accoppia ad un concetto di professionalità e di ordine. Perfino in mobilità i più moderni device portatili, siano essi tablet, smartphone o “semplici” telefoni, pur infarciti di tutti i possibili strumenti per comunicare in modalità “chat”, non si azzardano nemmeno ad uscire sul mercato senza un adeguato supporto per la posta elettronica.
Già, perchè nel mondo del lavoro la posta elettronica è ancora dominatrice incontrastata. E’ flessibile, non ha virtualmente limiti, è intuitiva e, qui arriva il bello, seppure non progettata per questo scopo, si è adattata nel tempo ed in modo improprio al document-workflow. Le sue capacità di trasporto di oggetti allegati, unite alla pigrizia mentale dei suoi utilizzatori che sono sempre poco inclini al cambiamento oltre che, purtroppo, alla loro ignoranza di fronte ad un computer, hanno fatto che si che, specialmente nelle aziende, la comunicazione via e-mail sia il perno su cui tutta l’attività si regge. Se manca la posta elettronica l’azienda si ferma … tragedia !!! Perfino nelle piccole, piccolissime realtà (meno di 10 postazioni in rete locale) condividere i documenti via e-mail, anzichè tramite cartelle condivise, è pratica consolidata e quasi impossibile da scalzare. Inutile disquisire su quali e quanti problemi questa tecnica possa portare : enorme dispendio di spazio con copie e copie dei medesimi documenti che vanno e vengono, impossibilità di avere controlli di versione coerenti, lamentele sui limiti di spazio alle caselle sulle quali sempre più frustrati it-manager cercano di porre dei limiti, pretesa di poter tenere archiviati i messaggi di posta elettronica dall’inizio dei tempi ecc. ecc.
In questo contesto e nell’ambito di una sempre crescente necessità di razionalizzazione dei costi, le aziende rivolgono una, parimenti, crescente attenzione a soluzioni “cloud” anche e soprattutto per la gestione dei servizi connessi alla posta elettronica: mondo nel quale i due player di maggior riferimento sono Google, con le sue Apps, e Microsoft con Office365 e nello specifico Outlook.com.
L’immaginario collettivo pretende di credere che la semplice esternalizzazione dei servizi di posta elettronica ad un provider nella nuvola possa far magicamente sparire odiosi ed apparentemente improduttivi costi legati a server, spazio, copie e supporto specialistico per “far-funzionare-il-server” (quei loschi figuri che girano in azienda che fanno cose che nessuno capisce ma che si beccano tutti i sacramenti della direzione quando il manager tal-dei-tali non riceve la posta sul suo nuovissimo iTelefono-che-fa-tutto). In realtà molti aspetti operativi non vengono assolutamente considerati o maliziosamente sottovalutati. Ecco, invece, a cosa dovete pensare se state pensando di passare a Google Apps for Business per la gestione della posta elettronica nella vostra piccola o grande azienda.
Se la disponibilità, all’interno di una rete LAN, di un servizio locale è indipendente dalla stabilità e disponibilità di connessione al web, non appena si passa ai servizi nella nuvola questa opzione cade. Miseramente. Un banale disservizio di poche ore del vostro carrier di connettività vi taglia letteralmente fuori, non solo dal mondo esterno, ma anche dalla comunicazione intra aziendale. Non potendo raggiungere il servizio esterno di consegna e recapito della posta elettronica, non posso comunicare con soggetti esterni alla struttura e nemmeno con il vicino di tavolo.
Usare la posta elettronica per questa attività è concettualmente sbagliato: mandare decine di allegati da distribuire in azienda è una bestemmia informatica. Tuttavia si fà e l’abitudine è dura a morire. Quindi bisogna gestirlo. E come funziona con i servizi cloud ? Pessimamente. Per rendere l’idea è utile un piccolo esempio. Supponiamo che voi siate in una stanza in cui lavorate voi ed un vostro collega, proprio due tavoli uno accanto all’altro. Dovendo consegnare un fascicolo al vostro collega che fareste ? Chiamereste la Dhl per prenotare una consegna, aspettereste che arrivasse il fattorino, prendesse la consegna, la portasse al loro deposito di smistamento, avvisasse il vostro collega che c’è una consegna per lui, arrivasse il giorno dopo con il pacco e lo consegnasse al vostro collega ? Oppure allunghereste il plico da un tavolo all’altro con il semplice gesto di una mano ? Ecco con il document-workflow via e-mail nel cloud succede proprio … la prima opzione. Dal vostro pc, impegnate la banda in output per inviare il documento ad un server esterno, che lo recapita nella mailbox di destinazione del vostro collega (che vi ricordo è seduto accanto a voi) il quale per scaricarlo sul suo computer dovrà impegnare nuovamente la banda in ingresso aziendale per ottenere un documento che, a logica, non avrebbe dovuto nemmeno uscire.
Il cambiamento nella modalità di gestione della posta elettronica avviene troppo spesso basandosi su decisioni sbagliate. La prima su tutte è “Che server adottiamo ?” oppure “Che servizio adottiamo ?“. In realtà l’unica domanda a cui davvero si dovrebbe dare peso è : “Quale è il client di posta che utilizzano e a cui sono abituati i dipendenti ? Se glielo cambiamo quali sono i costi in termini di perdita di produttività ? E di addestramento ?“. Piaccia o no Outlook la fa ancora da padrone e una qualsiasi decisione presa alla leggera che comporti la sua abolizione porta spesso a risultati imprevedibili e a piccole sommosse popolari. In azienda poi pensare di sostituire un client di posta con uno basato su interfaccia web è un errore madornale. In primo luogo perchè l’integrazione del client di posta nella shell del computer è parecchio ostica: in altre, volgari e semplicistiche parole, disporre del vecchio click-destro-invia-a-destinatario-di-posta-elettronica è cosa impossibile senza l’installazione di add-on specifici e, purtroppo, non sempre efficaci. Vi è poi da considerare l’interfaccia stessa. Gmail, anche nella versione business, è identico al “normale” Gmail gratuito per uso privato. L’unica differenza sta nel fatto che se paghi non ti sorbisci la pubblicità. I team di sviluppo di Google non sono mai riusciti a dare coerenza e semplicità ai loro strumenti tant’è che tenere sott’occhio account diversi, impersonare identità diverse, accedere a cartelle di posta secondo criteri privilegiati è operazione per pochi e skillatissimi eletti. Ma andando nello specifico dell’operatività “normale” di posta elettronica la loro interfaccia è decisamente disorganizzata, a volte illeggibile e irrazionale. La fisica e comprensibile suddivisione della mia casella in cartelle è stata soppiantata dalle etichette, componendo un nuovo messaggio DEVO iniziare a digitare il nome del destinatario (sempre che lo abbia in rubrica contatti o lo abbia già utilizzato almeno una volta) per avere dei suggerimenti dal momento che il pop-up della rubrica non mi permette di navigarla secondo mio piacimento (magari ordinando per nome di azienda). L’impostazione di default di ordinamento dei messaggi (per thread) è controintuiva e, ovviamente, scordatevi di lavorare off-line. Ma c’è di più: avendo un allegato corposo da inviare dovrete attendere che sia completato l’upload prima di poter inviare il messaggio, mentre con un fat client, il lavoro di upload viene fatto in background dopo che avete cliccato su Invia.
E non pensate di adottare con leggerezza nemmeno l’Outlook Connector perchè non vi avvicinereste nemmeno lontanamente alle funzionalità offerte dall’accoppiata Outlook Exchange. Piuttosto optate per Thunderbird come client in modalità IMAP e Lightning per collegarvi al calendario. Avrete un simulacro abbastanza soddisfacente di quello che facevate con Outlook.
Warning supremo. Non fate mai l’errore di adottare il servizio Gmail pensando di connettere Outlook (o altro client) in modalità POP3. Scaricando in POP3 non avrete mai evidenza di cosa è finito nella cartella di Gmail dedicata alla posta indesiderata (SPAM) e rischiate di perdere mail molto importanti che magari vi arrivano da nuovi potenziali clienti.
Per molti l’opzione di abbandonare Exchange è allettante. Non condivido molte delle ostilità gratuite che avversano quel prodotto se non una: in effetti costa parecchio. Tuttavia se utilizzate peculiarità di Exchange come, ad esempio, cartelle pubbliche con proprio indirizzo email, funzionalità di Single Sign On ecc. preparatevi a rinunciarvi o ad inventare accrocchi complicatissimi per poter lavorare nello stesso modo nella nuvola. Più facile pensare a software server alternativi ma sempre in-house.
Rimanere intrappolati in una scelta che magari non vi soddisfa è molto facile. L’esuberante offerta di spazio per casella offerto da Gmail porta a considerare con leggerezza il clean-up periodico delle caselle di posta (particolarmente difficile con Gmail) e il moving-away può essere un problema. Se non vi trovate bene dovrete pianificare per tempo spostamenti mastodontici di terabyte di posta qualora le vostre esigenze siano per centinaia di utenti. E tornare ad un servizio in-house potrebbe non essere facile.
L’accesso ad un servizio cloud prevede ovviamente un corrispettivo periodico. Se per contingenze sfortunate doveste trovarvi nella necessità di chiedere al fornitore un posticipo delle scadenze non pensate di trovare in un gestore che ha 350 milioni di utenze attivate un interlocutore amichevole. No paghi ? No posta. Con inevitabili ripercussioni sulle attività dovute all’impossibilità di comunicare con la posta elettronica con clienti e fornitori.
La c.d. nuvola non è solo “internet”. E’ un concetto di astrazione del “ferro” (un computer/server fisico) dal “servizio” o “i servizi” che questo eroga. Posso avere un cloud anche in casa se già dispongo di un dipartimento IT che sa fare il suo mestiere, con l’indubbio vantaggio che investimenti in impianti e tecnologia possono essere capitalizzati a favore di un aumento del valore dell’azienda: al contrario il mero pagamento di un canone di servizio è un costo che nel momento in cui viene sospeso si “porta via” anche il servizio associato. Una attenta valutazione nel medio periodo di costi annui rispetto agli ammortamenti di un nuovo investimento sono da considerare sempre con grande attenzione.
La prolificità degli sviluppatori Google è nota. Come è pure noto che non ci mettono molto ad abbandonare le idee che non vanno o che non generano i corretti profitti.
Tra le tante cose che ormai siamo abituati a percepire come familiari è l’immagine della home di Google
Notate niente di strano ? Ci sono due bottoni ormai quasi completamente inutili: Cerca e Mi sento Fortunato. Già … perchè per impostazione quasi universalmente predefinita basta iniziare a digitare una ricerca nella casella di testo perchè la pagina cambi e inizino subito ad apparire i risultati (Google Instant Search). Perchè mantenerli li allora ? Forse quelli di Google pensano che la pagina possa risultare troppo minimalista senza nemmeno un bottone. C’è da giurare però che il “Mi sento fortunato” (quando funziona) faccia perdere parecchi soldi in mancati ads emessi. Che sparisca presto ? ….
Dopo aver corretto il codice html del mio blog per farlo risultare valido alle verifiche w3c, mi sono messo ad analizzare un altro problema che nasce da quella tecnica: le performance di caricamento della pagina. Google è molto attenta alle performance offerte dai siti che indicizza e mette a disposizione diversi strumenti per ottimizzare l’output di ogni pagina affinchè risulti essere il più rapido possibile da visualizzare e, quindi, da fruire per i vostri visitatori. Non è da sottovalutare un altro fatto: quanto più il sito sarà rapido, tanto più alto sarà il numero di pagine che Googlebot (il crawler che vi indicizza) riuscirà ad ottenere in pasto nel tempo che BigG dedica alla scansione.
Tra i vari suggerimenti offerti dallo strumento di analisi PageSpeed risulta critica l’azione di Rimandare l’analisi del codice Javascript: in pratica si tratta di rinviare tutta l’esecuzione del codice javascript non necessario al rendering della pagina a dopo che il documento è stato caricato e quindi a dopo che i contenuti siano visibili.
Analizzando ora quello che avevo illustrato nell’articolo su come convalidare il bottone GooglePlus, vediamo che durante il caricamento della pagina vengono eseguite le istruzioni di rendering (in java) dei bottoni. Infatti ad ogni articolo emesso dallo script index.php genero il codice che riporto di seguito:
1 2 3 4 | <div id="plusone-div<?php the_ID() ?>" class="plusone"></div> <script type="text/javascript"> gapi.plusone.render('plusone-div<?php the_ID() ?>',{"size": "medium", "count": "true", "href": "<?php the_permalink() ?>"}); </script> |
Questa impostazione è sconsigliata perchè interrompe il normale rendering della pagina e impone l’esecuzione del codice javascript per poi riprendere di nuovo ad elaborare la restante parte del codice html. Come fare allora per rinviare a dopo il caricamento del documento il rendering dei bottoni Google Plus. E’ piuttosto semplice: emettiamo per ogni articolo un normale <div> formattato come il precedente ma questa volta aggiungiamo all’attributo title il valore dell’url di riferimento a cui agganciare il bottone stesso.
1 | <div id="plusone-div<?php the_ID() ?>" class="plusone" title="<?php the_permalink() ?>"></div> |
Dobbiamo ora inserire nel file header.php (lo script che genera l’intestazione di ogni pagina) un nuovo script javascript all’interno della sezione <head>. Ecco il codice:
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 | <script type="text/javascript"> function renderPlusOnes() { var plusOnes = document.getElementsByClassName('plusone'); for (var i=0, plusOne; plusOne = plusOnes[i++];) { if (plusOne.title) { gapi.plusone.render(plusOne.id,{"size": "medium", "count": "true", "href": plusOne.title}); } } } } </script> |
Questa funzione ricerca tutti i div di classe plusone all’interno del documento e per ognuno di essi invoca la funzione di Google che esegue il render del bottone al loro interno. Noterete che l’attributo title viene utilizzato come segnaposto per l’url di destinazione. Ora non resta che modificare il tag <body> per fargli eseguire la funzione al caricamento.
1 | <body onload="javascript:renderPlusOnes(); return true;"> |
Altri tre punti guadagnati nell’indice di performance di Google (ora 88/100) e tutto come sempre nel rispetto della convalida W3c.