Mentre il mondo grida allo scandalo causato delle occhiate indiscrete dell’ FBI nelle conversazioni telefoniche (forse), non ci si rende conto che lo stesso mondo ha già ampiamente e cristallinamente rinunciato alla tutela della propria privacy. Edward Snowden non è quindi, a mio modesto avviso, un paladino della libertà o, come la pressante campagna stampa in suo favore vorrebbe far credere, un prossimo martire per i diritti dell’uomo: è semplicemente un latore dell’ovvio e dello scontato, materia che diventa improvvisamente interessante solo perchè ammantata dall’alone di misteriosi complotti governativi.
Siamo imbolsiti a tal punto dalle comodità elettroniche e dai gadget digitali che riempono la nostra vita da non essere ormai più in grado di dare una connotazione concreta al concetto di privacy. Solo nel momento in cui si “scopre” (si fa per dire), come in questi giorni, che la mostruosa, incalcolabile, mole di dati che noi stessi, volontariamente, diamo in pasto a gestori di servizi di varia natura, possono essere di un qualche interesse per qualcuno, ecco che esplode lo scandalo e torna, con violenza, alla ribalta la strenua difesa della propria privacy in aperta contraddizione con gli stessi comportamenti quotidiani che teniamo. Il web sta diventando, con sempre maggiore evidenza, la scodella di raccolta di tutto quello che facciamo, pensiamo, delle opinioni che vogliamo esprimere, di quelle represse, delle persone che vediamo con frequenza come pure di quelle che vorremmo sempre evitare, dei posti che abbiamo visitato, di quelli che vorremmo vedere, dei nostri orientamenti politici, delle nostre abitudini, dei nostri hobby … perfino dell’amore per i nostri figli o le nostre famiglie.
Senza alcun ritegno, forti della infinita ignoranza riguardo le clausole contrattuali che abbiamo sottoscritto per poter accedere a determinati servizi, postiamo, taggiamo (Facebook, Google+), twittiamo (Twitter) su tutto e tutti, utilizziamo le email (private o dell’ufficio) per recapitare i nostri pensieri più intimi, le nostre invettive o le nostre passioni amorose, creiamo album fotografici di vacanze (Instagram, Picasa), parenti, amici … perfino dei bambini appena nati, pubblichiamo i nostri gusti musicali (Spotify; iTunes), le nostre compilation, mettiamo a nudo i nostri gusti in fatto di cinema e selezioniamo accuratamente video di qualsiasi natura (YouTube). Giochiamo rendendo nota le nostre abilità mnemoniche visive o imprenditoriali o strategiche (Ruzzle, The Sims, Jewels ecc.), segnaliamo tutto quello che ci piace e non ci piace del web (Pinterest), regaliamo like con abbondanza dando prova di aver visionato e, certamente, gradito determinati contenuti. Capita perfino di accettare supinamente suggerimenti e accostamenti con persone che hanno abitudini “simili” alle nostre e, pertanto, compatibili (Facebook, Meetic ecc.) E in tutto questo veniamo gratificati dal numero dei follower che riusciamo a raccogliere, dai like che a nostra volta riceviamo, dai migliori punteggi che riusciamo a pubblicare con il giochino di turno, dal sentirci parte di movimenti di opinione ampiamente condivisi che ci danno la confortevole sensazione di trovarci dalla parte del giusto. Il mondo “social”, indipendentemente dai propositi più etici di cui molti sproloquiano (“è solo per stare in contatto con i miei amici, ci ho ritrovato i compagni di scuola ecc.”) regala l’adrenalinica sensazione di poter essere protagonisti con tanto di numeri che sanciscono il nostro successo o il gradimento di cui godiamo: operazione, al contrario, molto difficile nella vita fisica, vis-a-vis.
Ed è cosi che tra chat inutili e piene di “hahaha” e faccine, la nostra privacy si allontana insieme al nostro senso critico. Tutto ciò che arriva dall’etereo mondo fatto di bit assurge a livello di verità assolute e incontestabili (Beppe Grillo in italia ha fatto del Web il proprio ariete di verità). Ma nulla ci è tolto, non siamo violentati in alcun modo. Siamo noi che decidiamo, bovinamente, di rinunciare al nostro privato, a ciò che ci rende unici, a quelle sfumature di personalità che rendono anche potenzialmente difficile il confronto con il prossimo, siamo noi che ci appiattiamo nel conformismo che obbligano tutti ad esprimersi con le stesse modalità prive di qualsiasi creatività. Attratti, come tutti i periodi estivi, dalle riviste di gossip che spopolano sui lettini prendisole di tutte le spiagge della penisola, diventiamo, allo stesso tempo, protagonisti del gossip altrui.
Ma ecco che scoppia la bomba: qualcuno ci guarda. “Oibò” dice il cittadino. “Non è mica giusto”. Eppure arrivare a capire che ogni giorno, ripeto, ogni giorno, tutto quello che riversiamo non solo in rete viene raccolto, catalogato, analizzato, aggregato e utilizzato a fini commerciali (pubblicità o promozioni), di profilazione (schede a punti o di fidelizzazione), di opinione (Twitter), di ottimizzazione delle circolazione (Google send-to-car) e chi più ne ha più ne metta. Basta possedere un telefonino (ed utilizzarlo regolarmente) per essere sempre individuabili tramite i riferimenti delle cellule che ci ripetono. I nostri SMS sono conservati per un periodo minimo di 2 anni in modo integrale (mittente, destinatario e testo completo (D.L. 30.05.2008 nr. 109) e forse a titolo volontario per molto più tempo. Non è difficile comprendere come la gratuità ( o l’estrema economicità ) di accesso a servizi di varia natura comporti sempre il costo implicito di una raccolta dati: il web è fatto di aziende private che hanno bilanci paragonabili a quelli di interi stati; non è un mondo fatto di Onlus.
Perchè dunque stupirsi quando un modesto funzionario governativo rivela che l’agenzia per cui lavora traccia le telefonate di milioni di numeri ormai da anni ? E’ la scoperta dell’acqua calda eppure fa più rumore e desta più attenzione di qualsiasi potenziale notizia che annunci la risoluzione di tutti i problemi energetici del mondo. Fa paura perchè dietro c’è un governo, uno stato e quindi un attore che può limitare le nostre libertà di pensiero, di opinione, di movimento e di libera circolazione. Ma tutto questo non ha senso: abbiamo già rinunciato a questi privilegi mettendo in mano a privati le chiavi della nostra vita: i nostri pensieri, i nostri ricordi, le nostre conversazioni i nostri viaggi ecc. e siamo già limitati nelle nostre scelte e nel nostro agire: veniamo bombardati da pubblicità mirata basata sulle nostre abitudini, veniamo goffamente scoperti nei nostri tradimenti, denunciamo stili di vita “vacanzieri” con tanto di prove fotografiche che vanno ben oltre le dichiarazioni dei redditi che depositiamo annualmente. Potenziali datori di lavoro ci scartano ancor prima del colloquio avendo visto le opinioni espresse da un candidato, il suo stile di vita e le sue attitudini magari a fare il furbetto o il suo desiderio di mettere su famiglia a breve. E tutto questo lo pubblichiamo noi, candidamente senza nessuna cautela. Eppure … gridiamo allo scandalo. Ripeto … perchè ?
Non so trovare altra risposta se non nella ricerca di una contraddittoria anarchia: rifiuto di soggiacere a qualsiasi potere costituito unito alla supina accettazione di altri poteri (prevalentemente economici e privati) parimenti costituiti ma con la faccia di imbonitori da fiera. Non stiamo progredendo; ci stiamo ritirando in un mondo sciocco e futile riempito della nostra supponenza di essere titolari di innumerevoli diritti che non sappiamo difendere.